Roio Poggio, processione fra le macerie

 - di Fulgenzio Ciccozzi - Quella che si è svolta domenica scorsa, a Roio Poggio, avremmo potuto annoverarla come una delle tante processioni che si svolgono in occasione delle feste o di altre ricorrenze religiose se non fosse per il fatto che il corteo, in questo caso, per la prima volta dopo il terremoto, ha attraversato un paese che non c’è. La fila dei fedeli ha imboccato il percorso dell’antico borgo dalla zona del Poggio meglio conosciuta come “Sant’Antono”. Fino a qualche decennio fa, accanto alla fonte, c’era una nicchia, inclusa in uno sperone di roccia posto sul dorso di una casa, che conteneva l’effige del Santo, e nella quale si deponeva un obolo come elemosina. Più giù, accanto all’aia, sono rimaste in piedi alcune case antiche che un tempo erano impiegate come granaio del convento di San Lorenzo. I fabbricati, uno dei quali edificato con una tessitura muraria a piccoli conci, includono una finestra in pietra e un affresco: il dipinto è ancora parzialmente visibile su un tratto di superficie intonacata. Osservando la sagoma dello stipite e lo stile della pittura, incorporati nel corpo murario degli edifici, è possibile attestarne l’origine in un periodo collocabile tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento: epoca in cui la devozione mariana nella vallata roiana ancora non trovava la sua espressione fideistica attuale e il monastero viveva gli ultimi vagiti di vita cenobitica, prima che venisse definitivamente abbandonato dalla comunità monastica. L’imbracatura e i teli che coprono l’enorme fabbricato di villa Palitti sono solo un accenno di una ricostruzione che nel primordiale tessuto urbano delle frazioni tarda a incominciare. Proviamo a metterci nei panni di coloro che avevano la residenza in loco, oppure a quanti avevano la dimora nelle immediate vicinanze, comunque incluse nel centro storico, che attualmente non rientrano nei primi comparti cantierabili: è facile intuirne lo stato d'animo, certamente plasmato dall'incerta fase evolutiva della ricostruzione. Non è semplice, né facilmente accettabile. In questo caso non è la terra a mancare loro sotto i piedi. Forse qualcos’altro! Ma, torniamo al giorno della festa. Dall'imbocco di corso Umberto, sin sopra all’Aia di San Lorenzo, il susseguirsi di vuoti e delle poche case sventrate rimaste “in piedi”, al cui interno sono ancora visibili gli oggetti e le suppellettili scaraventate per terra dallo scuotimento della terra, convogliano senza troppa fatica la breve catena umana. Dalla processione emerge lo stendardo dal colore cardinalizio che avvolge la figura della Vergine. Il corteo prosegue inerpicandosi sulla strada ciottolosa che fende in due il cuore del paese. Qualcuno dei fedeli distende il braccio verso il declivio dove prima c’era l’abitato e, puntando l’indice sulla spianata di macerie, indica i rioni del borgo (‘npetragnu, ‘ncavallò, ‘nfatiatu), ora indistinguibili. Luoghi, questi, tra le cui mura e le attigue rue, si consumavano piccole storie di un mondo nel quale forte era il senso della famiglia e del vivere comune. Tale è la devastazione, che è difficile intuire anche solo sommariamente la dislocazione degli isolati che costituivano l’abitato. Dalle Salere ecco spuntare i voluminosi e affusolati strumenti a fiato della banda che accompagna la processione. La preghiera e le parole pronunciate davanti all’altarino innalzato ‘ncapu l’ara in onore di Maria suonano come un grido di speranza per i devoti e di ringraziamento alla Madonna di Roio che da sempre, e soprattutto nei momenti più difficili, ha guidato, e tuttora guida, il cammino dei suoi figli.

 



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